Biodiversità vuol dire diversità biologica. “La crisi ecologica comprende quella climatica e biologica”: quando ho letto questa frase mi sono resa conto che stiamo parlando tanto di cambiamenti climatici e di energia ma molto meno della diversità biologica. Il 2022 sarà un anno importante per la biodiversità perché è l’anno degli incontri di Kunming, in Cina, chiamati COP15. In Italia è stato raggiunto un grande traguardo: la biodiversità, gli animali e l’ambiente sono entrati nel testo della Costituzione italiana. Scopriamo insieme di cosa si tratta, in parole semplici.
Quando parliamo di biodiversità, intendiamo la differenziazione biologica tra gli individui di una specie, in relazione alle condizioni ambientali. Se lo pensiamo riferito all’uomo ce ne facciamo subito un’idea: ogni essere umano appartiene alla stessa specie ma ogni essere umano è un individuo diverso. Allo stesso modo lo sono le querce, le margherite, i gatti o le balene. Diverse specie, ma anche diverse da individuo a individuo.
La definizione di biodiversità ci dice anche che sono importanti le condizioni ambientali. Sappiamo benissimo che ogni essere umano vive in un luogo particolare, in una propria casa e frequenta persone e ambienti diversi. Anche le specie, animali o vegetali, sono distribuite in diverse aree del mondo, vivono in condizioni ambientali differenti per la presenza di luce, di alberi, di piogge e di mille altri fattori che rendono unico ogni ecosistema.
Ma allora, cos’è la biodiversità? La biodiversità contiene nella sua definizione una seconda parte. La biodiversità è anche la coesistenza in uno stesso ecosistema di diverse specie animali e vegetali che crea un equilibrio grazie alle loro reciproche relazioni. Se torniamo a pensare agli esseri umani, sono sì degli individui, ma sociali. Ecco che un essere umano è diverso dall’altro non solo come individuo, ma anche in relazione agli altri esseri umani, in base alle reti e alle relazioni che crea.
Come per gli esseri umani, anche gli animali e i vegetali creano relazioni e reti che caratterizzano il loro habitat e definiscono un ecosistema. Ecco perché, quando parliamo dei popoli dell’Amazzonia che sono costretti a lasciare i loro territori diventati inospitali a causa del taglio degli alberi, dobbiamo pensare che in quel luogo abitano tantissime altre popolazioni di animali e di vegetali che stiamo distruggendo, sfrattando, costringendo all’estinzione.
La scienza ce lo dice chiaramente: se una specie scompare, scompare per sempre. Ecco che il periodo che stiamo vivendo viene spesso chiamato sesta estinzione di massa. Perché è vero che nel corso della millenaria storia del nostro Pianeta ci sono state molte estinzioni, ma ora il ritmo è troppo elevato e meno diluito nel tempo.
Pensiamo che l’allarme sul tasso di estinzione si basa sui dati: ci dicono che 1 milione di specie animali e vegetali sono a rischio su 1,8 milioni di specie censite e catalogate. Circa la metà, un po’ più della metà delle specie conosciute è a rischio estinzione.
Oggi, 9 febbraio 2022, è un giorno importante per l’Italia, per la natura, per tutti coloro che da anni hanno chiesto questo cambiamento. La biodiversità entra a far parte della Costituzione italiana, insieme alla tutela degli ambienti e degli ecosistemi e alla tutela degli animali.
L’Articolo 9 della Costituzione italiana afferma:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”
A questa frase è stata aggiunta la seguente parte:
“Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
Oltre all’Articolo 9, anche l’Articolo 41 della Costituzione italiana è stato modificato:
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”
Sono state aggiunte le parole salute e ambiente nella parte finale del testo, per ribadire che le iniziative economiche private devono considerare anche questi importanti fattori. Inoltre, le attività economiche pubbliche e private devono tener conto del fine sociale e di quello ambientale.
La tutela degli ecosistemi e dell’ambiente, della biodiversità e degli animali è essenziale per il presente e il futuro del nostro Pianeta. Da notare che nell’Articolo 9 viene introdotto anche il riferimento all’interesse verso le future generazioni così come troviamo nei principi dello sviluppo sostenibile.
Alla domanda: perché è importante la biodiversità? Io risponderei perché ogni individuo è unico, speciale, bello. Così come diciamo di ogni persona, di ogni essere umano. Ma non sempre ce ne rendiamo conto per gli animali e i vegetali.
Allora possiamo pensare che la distruzione degli habitat, delle foreste, delle zone umide è un danno naturale per tutto il mondo, ma anche economico, sociale e sanitario. La recente pandemia ci ha messo in allarme sul fatto che stiamo invadendo troppo gli habitat e che le specie animali selvatiche devono vivere e restare nei loro territori.
La nostra tavola, con tutti i cibi di origine vegetale, la frutta, le verdure, i cereali che mangiamo non sarà più la stessa. La nostra alimentazione potrebbe ridursi a pochi alimenti e sarebbe più povera e meno varia. Questo sarebbe un danno anche dal punto di vista economico e sociale. Molto spesso le aziende e le imprese del settore alimentare sono quelle che hanno un grosso impatto sulla nostra biodiversità. Consumano suolo, distruggono habitat per far posto alle monocolture.
Senza contare che la perdita di specie animali e vegetali rende il nostro paesaggio più povero. A me non piace per niente pensare che tra molti anni diverse specie animali potrebbero non esistere. Che mondo sarebbe senza delfini, tigri, elefanti? Un mondo meno bello, meno vario e più povero. Anche i fiori e le piante che conosciamo potrebbero scomparire e non essere più così comuni, se non coltivate in modo artificiale.
Si sente parlare poco di biodiversità. Perché? Forse perché la biodiversità viene percepita a livello locale e meno a livello globale. Se nella zona dove vivo tagliano delle querce o scompare una specie di farfalle forse mi sento più responsabile io che non una persone anche vive a mille chilometri di distanza. Ma non è così: sappiamo che in natura tutto è collegato. Se una rete ecologica si spezza, i danni si possono vedere anche a distanza.
La recente modifica del testo della Costituzione italiana è un passo molto importante per la natura e l’ambiente. Speriamo che ogni altro Stato si adegui e metta nelle proprie leggi la salvaguardia della biodiversità, degli animali, dell’ambiente. Così come il clima non ha confini, neanche le specie vegetali e animali lo hanno e devono essere tutelate ovunque come un bene nazionale, ma anche universale e mondiale.
Come possiamo rendere sostenibile la moda? Un capo di abbigliamento progettato secondo i principi dell’economia circolare e della sostenibilità è già un passo avanti: ma basta perché sia considerato sostenibile?
Nel post troverai una riflessione sulla moda sostenibile dal punto di vista ecologico e consigli su:
La sostenibilità è un concetto del quale si parla molto in questo periodo. Ormai siamo quasi tutti d’accordo sul fatto che essere sostenibili riguarda la vita di tutti e di tutti giorni, personale e professionale.
L’economia circolare parla chiaro: bisogna applicare i suoi principi in ogni settore, anche in quello della moda. Una delle frasi che si sentono dire, quello che è il principio base del riciclo creativo, afferma che:
“l’indumento più sostenibile è quello che si trova nel tuo armadio”
Ed è da qui che bisogna partire: utilizzare e riutilizzare quello che è già presente nel nostro guardaroba. In questo modo possiamo dire di aver fatto un passo importante per rendere sostenibile la moda. Un secondo passaggio è quello di acquistare capi di abbigliamento di seconda mano oppure scambiare e vendere i vestiti che non utilizziamo più organizzando simpatici swap party con le amiche. A questo si aggiunge anche la possibilità di noleggiare abiti e accessori: il fashion renting sta prendendo piede per matrimoni e cerimonie importanti.
È vero che spesso vogliamo rinnovare il nostro guardaroba e allora per inquinare meno ed essere sostenibili occorre acquistare meno, ma acquistare meglio.
I dati ci dicono che la moda è uno tra i settori più inquinanti in assoluto. Per realizzare un capo di moda o un accessorio, si consuma tantissima acqua ed energia. Ma siccome occorre tenere conto dell’intero ciclo di vita del prodotto dobbiamo sommare anche tutti i lavaggi in lavatrice, i detersivi consumati, l’inquinamento delle acque e dell’aria: tutto concorre a rendere un prodotto più o meno sostenibile.
L’inquinamento delle acque risente delle concerie, delle tinture e dei processi di lavorazione necessari per produrre un vestito o un accessorio. La moda sostenibile è quella che studia il ciclo di vita del prodotto e che quindi parte da materie prime biologiche, naturali o di riciclo.
Uno degli strumenti che possiamo utilizzare per scegliere un capo di abbigliamento che sia sostenibile è l’etichetta. Leggiamo bene le componenti del nostro capo, dove è fabbricato e, se possibile, informiamoci online sull’azienda che lo produce. Scegliamo i capi di moda fatti con fibre naturali e colorati con tinture vegetali, senza componenti tossiche o nocive. Gli indumenti biodegradabili o riciclabili sono da preferire quando vogliamo un capo di moda sostenibile.
Per le aziende produttrici che vogliono rendere sostenibile la moda è importante fare uno studio del ciclo di vita del prodotto, del capo di abbigliamento o dell’accessorio prima di realizzarlo. Per i consumatori, occorre riflettere sul fatto che molto spesso la moda che troviamo nei negozi è un esempio di fast fashion: abbigliamento prodotto in serie, in Paesi del mondo molto lontani, utilizzando colori e tinture tossiche e che non sempre rispettano le leggi in vigore in Europa.
Lana, cotone, lino sono le prime fibre naturali che ci vengono in mente, ma oggi la moda sostenibile è fatta anche di canapa, lino e juta. Nuove fibre di origine vegetale sono utilizzate da aziende all’avanguardia che vogliono rendere la moda sostenibile.
Un passo avanti nel rendere la moda sostenibile è quello intrapreso da molte aziende e startup: utilizzare materiali derivati dagli scarti vegetali. In particolare la frutta delle produzioni made in Italy ha molti scarti di lavorazione. Come abbiamo visto in un precedente post, tre tessuti ecologici prodotti da scarti vegetali, la lavorazione delle mele, dell’uva e delle arance lasciano scarti utili per realizzare capi innovativi e così rendere la moda più sostenibile.
Quando le arance vengono lavorate per produrre succhi di frutta e confetture, resta una sostanza di scarto chiamata pastazzo. Questo composto può essere la base per realizzare tessuti simili alla seta. Molte aziende agricole e strartup siciliane si sono già organizzate in filiere per dare vita a capi e accessori di moda all’insegna della sostenibilità.
Allo stesso modo, la sostanza contenuta all’interno delle pale della pianta del fico d’India viene utilizzata come base per produrre tessuti ecologici. Nasce una sorta di ecopelle che molti brand utilizzano per creare zaini, borse ed accessori ad alta sostenibilità.
Perfino dalla lavorazione delle uve italiane rimane una sostanza finora poco utilizzata: la vinaccia. Da questo scarto della lavorazione delle uve può nascere un tessuto che, al momento, è utilizzato nei settori dell’arredamento di interni e del design delle autovetture. Migliorando questa lavorazione, nel futuro il tessuto base ottenuto dall’uva sarà impiegato anche per scarpe, abiti e accessori di moda.
Diverse aziende italiane stanno già lavorando gli scarti delle mele, quello che resta quando il frutto è utilizzato per produrre marmellate e confetture. Anche in questo caso, dagli scarti della lavorazione di un vegetale si può avere un lavorato base per realizzare borse, zaini, cinture, portafogli e altri accessori di moda sostenibile. Le aziende che stanno compiendo questo passo forniscono dati interessanti sul risparmio di acqua, pari al 75% circa rispetto ad un prodotto tradizionale. Anche l’anidride carbonica immessa in atmosfera cala decisamente con valori pari al 65% in meno.
Di recente delle aziende europee hanno utilizzato i fondi di caffè per realizzare scarpe sportive e dalla lavorazione dello zucchero di canna si ottengono già diverse fibre che le aziende di moda sostenibile stanno utilizzando. Ma tutto ciò basta per rendere sostenibile la moda?
Uno degli argomenti forse ancora poco trattati è quanto un capo sostenibile sia collegato all’etica. Oggi parliamo di etica non solo intesa come comportamento corretto da parte degli uomini in generale. L’etica abbraccia tutti gli esseri viventi del nostro Pianeta.
A mio parere, quando parliamo di moda sostenibile dobbiamo tenere conto dell’etica e dei diritti delle persone e degli animali. I diritti delle persone sono fondamentali. Spesso nel settore della moda il lavoro delle donne e dei bambini è soggetto a sfruttamento, ad orari di lavoro eccessivi, in luoghi di lavoro non sani.
Per produrre un capo di abbigliamento o un accessorio che sia etico dobbiamo rispettare i diritti dei lavoratori. Perciò, prima di acquistare un capo di abbigliamento, chiediamoci:
Una moda sostenibile tiene conto delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti. Ma questo è solo il punto di partenza. Molti consumatori sono sempre più consapevoli del fatto che, per rendere sostenibile la moda, è necessario tener conto dei diritti degli animali e dell’ambiente. Diversi Stati europei hanno sancito per legge che gli animali non sono oggetti, ma esseri senzienti, cioè provano emozioni e sensazioni di gioia, dolore, rabbia. Gli allevamenti intensivi di animali da pelliccia sono stati chiusi e vietati dalla legge. La moda oggi è sempre più fur free, senza pelliccia, pelle o altri derivati animali.
La tecnologia e l’uso di internet stanno facendo conoscere aziende che producono moda sostenibile, aziende che utilizzano solo prodotti di origine vegetale, aziende che riusano e riciclano prodotti come la pelle e i pellami evirtando così l’uccisione di altri animali.
Nel mondo di oggi è cresciuta la consapevolezza ambientale. Il riuso, il riciclo, l’usato sono le basi di partenza, che dovrebbero essere ormai date per scontate. Nel futuro sarà necessario fare un passo avanti. Con la tecnologia, che ci permetterà di utilizzare prodotti innovativi e scarti vegetali o di nuovi materiali ancora da riutilizzare. Con l’etica e il rispetto per gli esseri viventi umani e animali.
Questa una mia riflessione su come rendere la moda sostenibile dal punto di vista ecologico, partendo dai diritti umani e naturali, dai principi della sostenibilità e dell’economia circolare.
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Il Professor Wilson è considerato il fondatore della sociobiologia e l’ideatore dell’ipotesi della biofilia. Chi era Edward Osborne Wilson e come ha contribuito a porre le basi della moderna conservazione della biodiversità: te lo racconto in modo semplice in questo post con un suggerimento di lettura.
Edward Osborne Wilson è considerato il fondatore della sociobiologia e a lui si deve l’ipotesi della biofilia. Ho letto alcuni suoi libri e articoli durante i miei studi universitari di ecologia, zoologia e botanica. Wilson è stato il primo a dare una definizione della parola biodiversità alla Conferenza di Rio del 1992 e a porre le basi della moderna conservazione della biodiversità.
È nato negli Stati Uniti nel 1929 e ci ha lasciato alla fine dello scorso anno. Fin da piccolo amava passeggiare nella natura e tra i boschi. Uno dei suoi passatempi era la pesca e proprio mentre pescava ebbe un incidente che forse cambiò il corso della sua vita e dei suoi studi. Si ferì all’occhio sinistro perdendo il senso della profondità da questo occhio, mentre con l’occhio destro divenne abile nel distinguere i dettagli microscopici.
Così Edward Wilson si è appassionato alla studio di tutto ciò che è piccolo in natura: il microcosmo. Le formiche sono state da sempre la sua passione. Si è iscritto all’Università dell’Alabama e poi del Tennessee, fino ad arrivare a frequentare ad Harvard il suo dottorato. La biologia era la sua materia di studio. Dalla zoogeografia, alla biologia delle popolazioni, Wilson ha studiato la particolarità delle specie insulari, quelle che vivono sulle isole, e dunque sono all’interno di un ecosistema ancora più ristretto rispetto alle specie che vivono nei continenti.
Per i suoi studi e le sue ricerche scientifiche, Edward Osborne Wilson ha vinto due Premi Pulitzer, un Ted Prize nel 2007 e una Hubbard Medal nel 2013. Il suo amore per lo studio delle formiche ha fatto di lui un importante mirmecologo. Wilson ha dedicato la sua vita allo studio della diversità delle specie sulla Terra, a come interferiscono tra loro l’uomo e la natura e a quali strategie mettere in atto per impedire il declino della natura e della vita selvatica.
Per salvaguardare le specie che vivono sul nostro Pianeta, Wilson ha deciso di creare una propria fondazione, la E. O. Wilson Biodiversity Foundation che ha un interessante progetto chiamato Half Earth. Secondo Wilson, per salvaguardare almeno metà del Pianeta Terra dalle modificazioni antropiche occorre lasciare libero almeno metà Pianeta per le specie.
Il progetto Half Earth ha l’obiettivo di proteggere metà della terra e del mare affinché almeno l’85% delle specie possa conservare il proprio spazio vitale.
Wilson viene definito il successore di Charles Darwin per i suoi studi sulla teoria dell’evoluzione. Edward Wilson è il fondatore della sociobiologia intesa come lo studio dell’evoluzione biologica del comportamento sociale. Secondo questo scienziato, il comportamento umano è un prodotto della determinazione genetica più che delle esperienze apprese. Basandosi sugli studi di Darwin, Wilson sostiene che il comportamento degli animali, uomo compreso, dipende dall’interazione tra genetica e stimoli ambientali.
Ma la ricerca che più ho apprezzato e per la quale è famoso Edward Osborne Wilson è l’ipotesi della biofilia. L’ipotesi scientifica della biofilia è stata proposta da Edward Osborne Wilson nel 1984.
Per biofilia si intende l’innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda anche emotivamente.
Il termine biofilia è proposto da Erich Fromm che lo intendeva come il legame che l’uomo cerca con gli altri organismi. Siamo esseri sociali, facciamo parte del tutto, tutto è collegato: questi sono i termini che utilizzo di più in questo blog perché sono le basi della vita, della biologia, della biofilia. Un argomento affascinante che sarà ancora più essenziale nel futuro.
L’uomo cerca la natura, gli altri esseri viventi, la vita sociale. Ci sono una serie di comportamenti innati dell’uomo in relazione col mondo naturale. Quando siamo nella natura, quando incontriamo i nostri simili, quando osserviamo un paesaggio o il comportamento animale proviamo emozioni e sentimenti: meraviglia, indifferenza, paura, ansia.
Un esempio pratico di cosa possa essere la biofilia è l’attrazione che proviamo verso i cuccioli, sia umani che di altre specie, soprattutto i Mammiferi. I cuccioli hanno aspetto simile, come gli occhi grandi, che inducono comportamenti di protezione, affetto e amore. Questi sono meccanismi che la natura mette in atto per assicurare un alto tasso di sopravvivenza di una specie.
Siamo attratti dagli stimoli naturali, abbiamo una forma di empatia verso le altre forme di vita. Osservando la natura proviamo:
Anche la scelta del luogo nel quale vivere è legata a comportamenti molto antichi, di quando gli uomini primitivi vivevano nella savana e sceglievano zone:
La biofilia, amore innato per la natura e per tutto ciò che è vivo, è collegata all’intelligenza naturalistica. Secondo la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner, gli uomini hanno sette diverse forme di intelligenza e una di queste è quella naturalistica.
L’intelligenza naturalistica è l’abilità di entrare in connessione profonda con gli esseri viventi non umani e apprezzare l’effetto che questa relazione ha su di noi e sull’ambiente.
Chi possiede questo tipo di intelligenza più spiccata ha:
La biofilia è un potenziale che si concretizza in azioni grazie all’intelligenza naturalistica per risolvere problemi tra uomo e natura. Sarà la base per costruire un mondo sostenibile, in armonia con la natura.
Per capire meglio il pensiero di Wilson, vorrei leggere un libro appena edito da PianoB Edizioni. Si intitola Biofilia. Il nostro legame con la natura. A conclusione di questo post, vi lascio una frase del Professor Wilson che trovo davvero molto attuale:
Se non preserviamo le altre forme di vita come dovere sacro, metteremo in pericolo noi stessi distruggendo la casa in cui ci siamo evoluti.
Edward Osborne Wilson
Si è appena conclusa a Glasgow COP26: di cosa si tratta, quali erano gli obiettivi di partenza e quali i risultati raggiunti? Trovi un riassunto in questo post.
Con la sigla COP 26 si intende la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il numero ventisei indica la ventiseiesima edizione annuale che si è da poco conclusa a Glasgow, nel Regno Unito. Con il termine COP si indica un vertice globale sul clima. CO sta per Conferenza e P per parti: Conferenza delle parti sul clima.
Questa edizione di COP 26 ha avuto un carattere straordinario e urgente mai visto prima. I cambiamenti climatici sono ormai in atto e non c’è più tempo da perdere: occorre intervenire subito per salvare il Pianeta, la biodiversità, ma soprattutto noi stessi. A Glasgow si sono riunite più di 30.000 persone provenienti da oltre 196 Paesi al mondo: leader mondiali, negoziatori, rappresentanti dei governi e delle imprese, delle associazioni, dei cittadini.
La prima Conferenza delle Parti si è tenuta nel 1995. Ma è solo nel 2015 con la COP 21, dopo gli incontri di Parigi, che si parla di “primo patto sul clima globale e condiviso”. Nel 2015 si sono riuniti nella capitale francese numerosi rappresentanti di diversi Stati del mondo per sottoscrivere un accordo di collaborazione per contenere l’innalzamento della temperatura globale al di sotto degli 1,5°C: da questo incontro è stato firmato l’Accordo di Parigi.
Ogni Stato presente si era impegnato a creare un proprio piano nazionale, chiamato Nationally Determined Contribution, ovvero contributo determinato a livello nazionale. Da qui la sigla NDC che abbiamo spesso sentito nominare a Glasgow 2021.
L’impegno era quello di aggiornare i piani nazionali ogni cinque anni e presentarli alle commissioni, indicando il lavoro fatto per contenere la temperatura e le immissioni in atmosfera dei gas serra, con tanto di tabelle Excel contenenti i dati precisi.
Lo scorso 31 ottobre 2021 si è aperta a Glasgow COP26, la ventiseiesima Conferenza delle Parti.
Siamo arrivati a questo appuntamento con quattro obiettivi generali di COP 26 da raggiungere e da discutere:
Partendo da queste quattro macro aree di confronto, vediamo nel dettaglio gli obiettivi e gli sviluppi ottenuti alla conclusione del vertice COP26.
Alla Conferenza di Glasgow 2021 siamo arrivati con quattro obiettivi e quattro grandi aree di discussione.
Il primo obiettivo di COP26 parla di mitigazione: azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento della temperatura entro 1,5°C.
La proposta era quella di dimezzare le emissioni nei prossimi dieci anni e azzerare le emissioni nette di carbonio entro il 2050. Ogni Paese dovrebbe impegnarsi ad aggiornare il proprio piano nazionale, NDC, e allinearlo rispetto a questo valore di temperatura.
Ad ogni Paese era richiesto di:
Come secondo obiettivo di COP 26 c’è l’adattamento: adattarsi per salvaguardare le comunità e gli habitat naturali. Il clima cambia con gravi effetti sulle persone e sul mondo animale e vegetale.
Occorre proteggere e ripristinare gli ecosistemi e costruire difese, barriere, sistemi di allerta e infrastrutture, sviluppare agricolture resilienti per contrastare la perdita di strade, abitazioni, vite umane.
Nell’ambito dell’adattamento, molto importante è il sostegno alle popolazioni più vulnerabili, quelle che stanno già perdendo habitat, biodiversità e risorse e ripristinare gli habitat, utilizzando maggiori fondi e adeguate strategie. Importante per il raggiungimento di questo obiettivo è anche la “comunicazione sull’adattamento”: apprendere, comunicare e condividere le migliori pratiche.
Terzo obiettivo della COP 26 riguarda la finanza, ovvero mobilitare i fondi. Si partiva dal presupposto che servivano 100 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima entro il 2020. Agli Stati veniva richiesto di sbloccare i fondi e tutti i finanziamenti. Un maggiore investimento, sia da parte degli enti pubblici che da quelli privati, per un’economia sempre più verde e resiliente al clima, puntando su tecnologia e innovazione. Importante era anche il nodo del sostegno ai Paesi in via di sviluppo con 100 miliardi di dollari l’anno per il clima.
Il quarto obiettivo di partenza per COP 26 è la collaborazione: collaborare per ottenere risultati. In particolare si poneva l’accento sul portare a conclusione “il libro delle regole di Parigi” ovvero:
La ventiseiesima Conferenza delle Parti di Glasgow si è conclusa in ritardo sabato 14 novembre. Non è facile mettere d’accordo così tanti Stati diversi, ognuno con i suoi ritmi di sviluppo e le proprie necessità. I risultati non sono mai quelli desiderati, non accontentano mai tutti: questo per le riunioni in generale, a maggior ragione se parliamo di clima. Leggendo i bollettini di Italian Climate Network e gli articoli degli esperti online, mi sono segnata i punti principali di questa Conferenza delle Parti.
“Se rispettiamo gli accordi possiamo salvarci”
è senz’altro la frase emblema di questa COP 26. Sicuramente sarebbe stato meglio agire prima, dieci o quindici anni fa, ma almeno si riconosce la gravità della situazione.
Molti punti postivi, punti a favore di un accordo e una linea comune sono usciti da questa COP 26. È stato trovato un accordo ed è stato condiviso da 196 Paesi. Si è stabilito di aggiornare il proprio piano nazionale, NDC, ogni anno e non più ogni cinque anni come in precedenza. Visto che le Conferenze delle Parti si svolgeranno ogni anno, almeno ci arriveremo con dati più precisi e aggiornati.
Si è parlato di abbandono del carbone, almeno per quanto riguarda lo stop ai finanziamenti pubblici che prevedono l’uso dei combustibili fossili. Uno degli obiettivi chiari raggiunti riguarda la diminuzione di emissioni di gas serra del 45% rispetto al 2010 entro il 2030. Inoltre, entro il 2024, ogni Stato dovrà conteggiare le proprie emissioni di gas serra.
Un altro punto a favore della conferenza: USA e Cina collaboreranno per ridurre i cambiamenti climatici. Per la prima volta in queste conferenze delle parti si parla di un modello globale con surriscaldamento al di sotto dei 2°C, numero che indica una soglia critica per l’ambiente e gli esseri viventi.
Alcuni punti che hanno soddisfatto solo in parte i partecipanti riguardano il “mercato del carbone“: i Paesi inquinanti devono compensare le loro emissioni finanziando progetti con emissioni negative verso altri Paesi. Questo accordo non è stato approvato da tutte le parti. Allo stesso modo la proposta rimasta un po’ vaga del raddoppio dell’aiuto ai Paesi in via sviluppo da parte delle Nazioni più ricche. Non si parla di date, termini, numeri ma solo della promessa fatta a Parigi di fornire almeno cento miliardi l’anno.
Alcuni propositi sono stati accettati da buona parte delle nazioni, ma non da tutte. Ad esempio, il fermare la deforestazione entro il 2030: punto che è stato approvato solo da 100 Paesi, quelli che ospitano l’85% delle foreste del mondo. Queste Nazioni si sono impegnate a ridurre il disboscamento, ad aumentare la rigenerazione e a proteggere le popolazioni locali.
Il tema dell’inquinamento dei dei mari e degli oceani, della perdita della biodiversità, dell’innalzamento delle acque con gravi danni per le popolazioni costiere è stato trattato troppo marginalmente. Abbiamo visto la situazione allarmante di alcuni Paesi come il rappresentante delle isole di Tuvalu che ha inviato un suo video immerso nell’acqua del mare.
Ridurre il metano del 30% entro il 2030 è l’opzione approvata solo da un centinaio di Stati, ma non da tutti. Limitare l’uso del metano, controllarne gli sprechi e le perdite sono impegni presi solo da alcuni Paesi partecipanti. Allo stesso modo, non si è affrontato il tema degli allevamenti intensivi che meritava più attenzione.
Sappiamo che l’India, quasi a chiusura dei lavori, ha parlato di ridurre le emissioni di gas serra entro il 2070, una data troppo lontana nel tempo, modificando gli accordi finali generali.
I punti negativi, a sfavore o poco trattati in questa COP 26 sono numerosi. A partire dall’assenza di leader mondiali quali quelli di Cina, Russia, Brasile, Australia. Le risoluzioni sulle emissioni di gas serra sono ritenute troppo deboli, visto che le emissioni sono aumentate nel corso del 2021 (+5% circa rispetto al 2020).
Non si è arrivati a definire di restare a tutti i costi al di sotto degli 1,5°C di aumento della temperatura in atmosfera. Europa e Stati Uniti si sono rivelati poco concreti nell’aiutare coloro che stanno vivendo crisi climatiche enormi. Non si è arrivati all’abbandono del carbone, ma solo alla sua riduzione graduale, proposta dall’India.
Questi gli obiettivi generali e i risultati ottenuti dalla recente COP26 che d’ora in poi sarà chiamata Glasgow Climate Pact.. L’appuntamento è il prossimo autunno in Egitto.
*fonti* Per parlare di COP 26 e dei suoi obiettivi mi sono riferita ai dati del sito ufficiale ukcop26.org, mentre per i risultati ho preso spunto dalle newsletter “Il colore verde” di Nicolas Lozito e dai bollettini ufficiali di Italian Climate Network.
Il Decennio del Mare è stato istituito dalle Nazioni Unite per dare vita ad un programma comune di tutela e salvaguardia del mare. Obiettivo: far conoscere meraviglie, problematiche e soluzioni per i mari e gli oceani, anche grazie alla mostra Ocean and Climate Village che si è tenuta a Milano.
Le Nazioni Unite hanno istituito il Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile. Dal 2021 al 2030 la Decade of Ocean Science for Sustainable Development si occuperà di riunire la comunità scientifica, i governi, la società e i privati in un grande comune programma di ricerca e innovazione tecnologica.
Il Decennio del Mare sarà un periodo nel quale dare spazio alla scienza che aiuta ad avere mari e oceani come li vogliamo:
la scienza di cui abbiamo bisogno per l’oceano che vogliamo
Dieci anni per promuovere azioni di sviluppo sostenibile per raggiungere gli Obiettivi dell’Agenda 2030. In particolare, l’obiettivo 14 che prevede di ridurre in modo significativo, entro il 2025, tutti i tipi di inquinamento e ridurre al minimo l’acidificazione degli oceani e dei mari.
The Ocean we want, l’oceano che vogliamo, è la frase chiave della campagna del Decennio del Mare. Per avere un mare pulito e ricco di biodiversità, le Nazioni Unite si sono date sette obiettivi.
I sette risultati concreti per la società che il Decennio del Mare punta a raggiungere, rispondono alla domanda vogliamo un mare che sia:
Perché occuparsi del mare e degli oceani? Parliamo sempre della salvaguardia della Terra sopratutto degli ecosistemi terrestri, dell’aria e delle acque dolci. Ma il nostro Pianeta è composto per il 77% da acqua salata e dobbiamo tenerne conto.
Alcuni dati significativi che ho trovato alla mostra Ocean and Climate Village ci dicono che:
Dall’1 al 3 ottobre si è svolta a Milano presso La Triennale la mostra Ocean and Climate Village. Ispirata al Decennio delle Scienze del Mare e dello Sviluppo Sostenibile, è stata la prima mostra itinerante con focus su oceano e clima.
Un’esperienza multisensoriale e formativa per parlare del rapporto che c’è tra il clima e le acque dei mari e degli oceani. Il nostro Pianeta è fortemente influenzato dai mari e dagli oceani che ne cambiano le condizioni climatiche. La mostra ha raccontato il rapporto tra clima ed oceani attraverso otto zone e sei punti di vista:
Una mostra interessante, che mi ha fatto pensare al fatto che si sente parlare così poco di alcuni temi e tanto di altri. Ad esempio, sappiamo tutti che la plastica è uno dei principali problemi per mari e oceani e anche per la terraferma. Mentre si parla poco del fatto che nel mare e negli oceani l’ossigeno sta diminuendo.
Si tratta della deossigenazione dell’oceano. Attività umane come la combustione dei combustibili fossili e gli scarichi di agricoltura e rifiuti, assieme all’aumento di temperatura e nutrienti nelle acque sono responsabili del fenomeno della deossigenazione degli oceani. Si contano oltre 500 siti a basso contenuto di ossigeno. Questa perdita di ossigeno danneggia gli organismi marini, che devono lavorare di più per ricavarlo.
Il nostro mare è il Mar Mediterraneo e nella mostra Ocean and Climate Village ho trovato numerosi dati che ci confermano la sua importanza.
Il Mar Mediterraneo:
Dell’Italia è emersa la sua estrema fragilità. Tredici dei suoi siti culturali costieri dichiarati Patrimonio Unesco rischiano di essere sommersi e quattordici sono quelli a rischio di erosione futura. Le zone più fragili sono Venezia e la laguna, Ferrara, il Delta del Po e la Basilica di Aquileia.
Allo stesso tempo, l’Italia ha una grande bellezza legata al suo patrimonio naturale ed artistico. Il Mediterraneo ospita tra le sue acque specie ed ecosistemi unici al mondo. Alcune di queste aree sono state riconosciute dall’Unesco come Riserve della biodiversità. Queste Riserve della Biosfera sono luoghi di grande importanza per la sostenibilità. L’Italia conta 17 riserve della biosfera, zone studiate e protette per comprendere i cambiamenti climatici e le interazioni tra sistemi naturali e sociali.
Alla mostra Ocean and Climate Village è stato promosso un concorso dedicato alle donne e al mare. Si chiama Premio Donna di Mare 2022 e si rivolge a giovani donne che hanno a cuore l’ambiente marino. Imprenditrici femminili che tutelano l’ambiente, nel rispetto delle pari opportunità e della tutela del patrimonio e delle persone. È possibile partecipare con contributi multimediali, grafici e fotografici e con progetti educativi e di ricerca.
L’obiettivo del Premio Donna di Mare 2022 è quello di mettere al centro la relazione tra le donne e il mare e creare un modello di organizzazione capace di affrontare le sfide ambientali e sociali verso uno sviluppo sostenibile e in accordo con gli obiettivi delle Nazioni Unite. I tre macro temi di ricerca riguardano il mare e la donna e il fondamentale ruolo delle donne e del mare.
I dati che trovi in questo post sono tratti dal sito ufficiale del Decennio del Mare